La Tesla segna il nuovo record di quasi mezzo milione di consegne di veicoli nel 2020.
Ad essere precisi, lo scorso anno la casa californiana ha consegnato 499.550 veicoli, arrivando quasi a centrare l’obiettivo di mezzo milione di consegne indicato da Elon Musk.
Il messaggio di Elon Musk
Il numero uno della Tesla ha comunque twittato un messaggio di grande soddisfazione al mondo social con cui comunica continuamente e molto volentieri.
Orgoglioso del team per aver raggiunto questo importante traguardo. All’inizio dell’avventura Tesla pensavo che avessimo (ottimisticamente) il 10% di possibilità di sopravvivere.
I numeri ufficiali
La Tesla ha comunicato i dati ufficiali, che vedono la Model 3 come grande protagonista.
Oltre 440.000 consegne sono infatti da imputare all’accoppiata dei due modelli più accessibili dal punto di vista del prezzo d’acquisto, la Tesla Model 3 e la Tesla Model Y.
Obiettivo Europa
Adesso l’attenzione è tutta per lo sviluppo industriale in Europa, grazie all’avvio della Gigafactory di Berlino.
E per il conseguente ulteriore balzo atteso sui nostri mercati continentali, alimentato proprio dalle Tesla Model Y prodotte in Germania.
Tesla Model Y
Il modello più atteso del momento per gli amanti del marchio tesla e delle zero emissioni è certamente lei, la Tesla Model Y.
Il Tesla Battery Day 2020, giornata dedicata all’ennesimo show dell’iconico Elon Musk sul futuro delle batterie secondo Tesla, è un giorno importante per l’auto elettrica e per l’ulteriore crescita del marchio californiano.
Cosa ci si aspetta
La copertina dell’invito a partecipare all’evento, nella foto di apertura di questo articolo, fa sospettare novità sulla tecnologia delle batterie che andranno ad equipaggiare le prossime Tesla.
In particolare, la grande somiglianza tra l’immagine scelta per lanciare l’evento e il modo in cui si presentano al microscopio i nanofili di silicio (silicon nanowires) fa dedurre a molti osservatori che la novità sia nell’introduzione delle batterie al litio con anodo di silicio.
Perché i nanofili di silicio per l’anodo
La grande capacità specifica del silicio (4200 mA h g−1) lo rende il principale candidato per la prossima generazione di batterie agli ioni di litio.
Il grande cambiamento di volume del silicio durante il processo (pari al 400% ) rende però estremamente complessa la sua adozione. Il cambiamento di volume distrugge infatti la struttura iniziale, provocando un’ingente riduzione dell’efficienza e compromettendo la stabilità e il comportamento della batteria.
L’adozione di silicio nanostrutturato e in particolare di nanofili di silicio (SiNWs – Silicon nanowires) rappresenta una delle possibili soluzioni al grande problema del cambiamento di volume e della conseguente compromissione strutturale.
Trovare il giusto additivo
La soluzione, inseguita in molti centri di ricerca del mondo, non è però affatto semplice da trovare.
I nanofili di silicio, infatti, necessitano di additivi appropriati per poter rappresentare l’elemento portante degli innovativi anodi al silicio per batterie agli ioni di litio.
Materiali al carbonio, altri metalli, ossidi metallici, polimeri, materiali a base di silicio e altri composti speciali sono allo studio per poter arrivare all’applicazione affidabile, ripetibile e producibile con la dovuta ripetibilità industriale.
L’asso nella manica della Tesla
L’asso nella manica di Elon Musk e della Tesla può essere l’accordo di collaborazione firmato con la CATL, il più grande produttore di celle per batterie agli ioni di litio del mondo, che ha fatto capire in più occasioni di essere molto vicina alla soluzione per lo sviluppo di anodi al silicio.
Neanche la CATL da sola, però, è sembrata in grado ai più di poter arrivare in tempi brevi al risultato.
Il metodo Tesla
La differenza quindi, la può fare proprio il metodo di lavoro della Tesla. Lo stesso che ha portato alla leadership indiscussa di questi anni nella tecnologia dell’auto elettrica e allo sviluppo con pieno successo dello Space X.
Non si tratta di sole conoscenze tecniche, intendiamoci. Il metodo Tesla è molto di più e se permetterà al marchio di accedere a batterie con anodo al silicio segnerà una fuga tecnologica importante per il panorama dell’auto elettrica.
Il numero uno della Tesla incontra il numero uno della Volkswagen in Germania, già questo è un fatto molto interessante per l’evoluzione del mercato dell’auto mondiale.
Poi è proprio il capo del gigante Volkswagen, Herbert Diess, che decide di dare grande evidenza alla cosa e comunica in ogni modo l’incontro.
Mentre il solitamente iper-social Elon Musk non dà segno di importanza all’episodio.
Post Linkedin con il video della prova
Herbert Diess ci prende gusto e pubblica un post sul suo profilo ufficiale Linkedin addirittura con il video di Musk che prova la Volkswagen elettrica ID.3.
La Volkswagen ID.3 è una grande concorrente della Tesla Model 3 e – ancora di più – della futura piccola Tesla Model 2 in arrivo dalla Cina.
L’incontro è cordiale, da colleghi che parlano dei loro prodotti e si stimano. Elon Musk a bordo della Volkswagen ID.3 chiede informazioni sul pacco batterie che la equipaggia e Diess risponde.
Musk chiede: Che batterie ha? Diess risponde: Da 55 a 83 kWh.
Un incontro impensabile soltanto un paio d’anni fa, quando la Tesla era ancora indicata come una meteora da molti (troppi…) dirigenti delle grandi case forti delle loro tecnologie tradizionali.
La frecciata di Musk
Nel colloquio c’è anche una piccola frecciatina di Elon Musk alla Volkswagen.
Lo sterzo, per un’auto non sportiva, è buono.
In quell’espressione auto non sportiva c’è molto di più di una semplice evidenza.
C’è la distanza che Elon Musk mette tra le sue Tesla, elettriche dall’animo sportivo e dalle prestazioni fulminanti, e il resto del mondo, Volkswagen ID3. compresa, naturalmente.
La Tesla Model 2 è in corso di sviluppo in Cina, dove verrà prodotta nella nuova Gigafactory di Shanghai non soltanto per il mercato interno ma anche per essere esportata in tutto il mondo.
E’ bastata l’immagine postata dalla Tesla sui suoi canali social in Cina qualche mese fa, ad agitare più di un consiglio di amministrazione delle case concorrenti.
Preoccupa i concorrenti
La Tesla Model 2, infatti, va ad attaccare esattamente lo spazio di mercato identificato dalla Volkswagen per la ID.3, dalla Hyundai per la Ioniq – che adesso dà il nome addirittura al marchio del gruppo coreano dedicato esclusivamente alle auto con trazione elettrica. E anche dal nascente megagruppo europeo Stellantis, ovvero la sommatoria di PSA (Peugeot, Citroen, DS, Opel) e FCA (Fiat, Lancia, Alfa Romeo, Jeep, Chrysler), che ha nel Vecchio Continente il suo centro gravitazionale e nelle auto medie e piccole una sua specialità di tradizione.
Prezzo sotto i 25.000 euro
L’arrivo di una piccola Tesla con un prezzo al di sotto dei 25.000 euro è possibile grazie all’intero sviluppo e alla produzione in Cina.
Lo ha intuito un paio d’anni fa Elon Musk, quando ha visto sfumare il progetto di rendere la Tesla Model 3 accessibile e competitiva, sul piano del prezzo, per il mercato americano.
La Tesla Model 3 non ha centrato l’obiettivo del prezzo sotto i 30.000 dollari anche e soprattutto perché è sviluppata e prodotta in California.
Caratteristiche e prestazioni
La Tesla Model 2 avrà almeno quattro versioni, diverse per capacità della batteria e per tecnologia di trazione.
Il modello di ingresso avrà una batteria con non meno di 50 kWh di capacità e 500 chilometri di autonomia con una ricarica completa. Questo indica un passo in avanti notevole nel consumo chilometrico, già ottimo per la Tesla Model 3 in condizioni reali di utilizzo.
La notizia, tutto pronto già nel 2021?
L’arrivo della tesla Model 2 è previsto dal piano industriale della Tesla China per il 2022 ma le accelerazioni nella ricerca di personale in Cina per la finalizzazione del design e l’avvio della produzione fanno prevedere tempi più brevi.
Secondo fonti cinesi, entro il prossimo anno la Tesla Model 2 in versione definitiva potrebbe essere presentata in un grande evento in Cina e lanciata sul mercato addirittura in anticipo rispetto al programma.
Insolito per la Tesla, che programma e centellina oculatamente i suoi debutti ed ha altre première mondiali in arrivo, come il Cybertruck e la Model Y.
La febbre cinese di Elon
La febbre cinese che ha contagiato positivamente il divo Elon, potrebbe però portare al debutto anticipato.
Staremo a vedere, ma in Cina non si aspetta altro che la prima Tesla disegnata, sviluppata e prodotta interamente lì e la possibilità di portarla anche in giro per il mondo a conquistare mercati.
Ritornano le citycar elettriche, le uniche auto alla spina che al momento hanno davvero senso.
Pensiamo alle città
Perché è in città che serve muoversi ad emissioni zero (e non parliamo di CO2) per poter contribuire alla qualità dell’aria (peraltro molto più alta di qualche anno fa nonostante gli allarmismi strumentali). E poter aggirare i blocchi alla circolazione di alcune municipalità, spesso assurdi e dettati da un combinato disposto di ignoranza, pregiudizio ideologico e interessi economici ancora tutti da chiarire.
Ma torniamo alle piccole da città.
Tre piccole gemelle elettriche
In queste settimane il gruppo Volkswagen ha aggiornato le tre gemelle elettriche: Vw e-Up, Seat Mii electric e Skoda CitiGo-e.
Ora vantano un’autonomia decente (260 km teorici) grazie a una batteria da 32,3 kWh che si ricarica in un’ora all’80 per cento. Per muoversi in città e sentirsi green non serve altro e la spesa è anche accettabile: meno di 25 mila euro e ci sono canoni da meno di 200 euro al mese.
Le tre vetture esistevano già ma l’autonomia sfiorava il ridicolo, ora con le versioni 2020 ritornano e accendono un faro.
Pochi fortunati non fanno la rivoluzione
Le grandi auto elettriche, le varie Audi e-tron, Mercedes Eqc e Jaguar I-Pace, sono oggetti che non possono fare davvero la rivoluzione perché destinate a quei happy few che si sono comprati o comprerebbero un modello Tesla, auto da altospendenti, “gente coi danè” per dirla alla milanese.
E le Tesla, va ricordato, non hanno una straordinaria autonomia perché io divino Elon Musk ha inventato le batterie magiche ma solo perché ha è stata scelta (senza limiti di budget anche per creare storytelling) una batteria enorme e per farlo aveva bisogno di un’auto grande come Model S per poterla ospitare.
Le grandi auto elettriche hanno bisogno di infrastrutture
Ora con l’aumento della densità energetica e la riduzione dei costi possono essere proposte citycar realmente utilizzabili. Appare, dunque chiaro che i bestioni elettrici non hanno un reale senso logico perché senza una rete di ricarica seria e capillare e magari autostradale restano confinate all’ambito urbano e suburbano.
Per viaggiare è meglio optare per una bella diesel o per una plug-in hybrid.
Piccole batterie significa piccolo impatto
E per inciso una elettrica piccola ha una batteria che è meno costosa da ricaricare (anche in termine di dispendio energetico) ed è facile da smaltire. Anche questa è sostenibilità vera perché non basta fare il teslaro con il “club dei più buoni” per fare bene al clima.
La frase “checché ne dica Elon Musk, i camion elettrici a batteria non hanno senso” è stata al centro di uno dei dibattiti più interessanti fra quelli a cui abbiamo partecipato in questi giorni a Londra, in occasione dell’evento Hydrogen Society promosso da organi governativi da un lato e dall’altro da aziende che lavorano sul tema dell’idrogeno da anni.
Hydrogen Society a Londra
E noi, come rappresentanti italiani, siamo stati chiamati da Toyota per discutere di questi argomenti partendo dalla mobilità, che sarà al centro del cambiamento. Ecco in che modo, secondo quanto emerso da questo convegno.
Focus sui mezzi pesanti
In particolare, è proprio sui cosiddetti mezzi pesanti (autobus, autoarticolati, veicoli commerciali) e non sulle automobili che gli esperti britannici chiamati in causa hanno voluto focalizzare l’attenzione. Parliamo di esponenti di brand molto conosciuti nel settore automotive – come appunto Toyota, oppure Shell, Arval – e di aziende con una conoscenza radicata nel tempo nel campo di tutto ciò che riguarda celle a combustibile, elettrolizzatori o reti di produzione e distribuzione dell’idrogeno: Johnson Matthey, ITM Power, Intelligent Energy, Fuel Cell Systems, Arcola Energy, Riversimple, Tayler Construction Plant, JC Easycabin Ecosmart, Element Energy.
Aziende ed Enti pubblici
Sono proprio la collaborazione fra le aziende e il coinvolgimento degli enti pubblici i due punti chiave per rendere sostenibile il progresso futuro dei paesi sviluppati e di quelli in via di sviluppo, mettendo in atto più soluzioni e ragionando su un lasso temporale di decenni, anziché di anni. Un altro esempio di questo tipo di joint venture, oltre al caso britannico, è quello di H2 Mobility in Germania, un’iniziativa pensata per spalmare il rischio d’impresa nella fase iniziale della diffusione dell’idrogeno, in cui prima di fare profitti bisogna investire per creare le basi di un nuovo mercato energetico. Fra le aziende coinvolte ci sono BMW, Daimler, Toyota, Volkswagen, Shell, Total, Air Liquide e il Gruppo Linde.
Industria, riscaldamento, trasporti
Il fatto che il cambiamento non solo possa, ma debba iniziare dalla mobilità si basa sul ragionamento per cui le attività produttive umane che oggi si reggono sugli idrocarburi siano classificabili in 3 grandi categorie: industria, riscaldamento, trasporti. I primi due sono i settori più difficili da decarbonizzare nel passare dall’energia fornita tipicamente dal gas naturale a quella dell’idrogeno.
Ed è una questione di scala: le dimensioni e dunque i costi di conversione anche solo di un singolo stabilimento siderurgico o chimico, oppure di un metanodotto, impediscono di partire da qui, con investimenti nell’ordine del miliardo di euro per impianto.
Strategia degli investimenti
La strategia dunque è quella di investire cifre minori (di cui parleremo fra poco) nei trasporti, in modo che possano far da volano per stimolare l’utilizzo della nuova fonte di energia in altri settori. È proprio quello in cui credono i player che abbiamo incontrato nel Regno Unito, iniziando a sostituire progressivamente i veicoli pesanti alimentati a gasolio con dei nuovi mezzi Fuel Cell.
Il meccanismo immaginato è quello in cui le amministrazioni pubbliche e le flotte aziendali private dovrebbero effettuare ordini di centinaia di veicoli a celle a combustibile.
Costo dei Bus a idrogeno con celle a combustibile
A titolo di esempio, oggi un autobus Fuel Cell costa in media 500.000 euro, cosa che per flotte di decine di mezzi porterebbe a blocchi di investimento di 100-200 milioni di euro e dunque alla creazione di nuclei iniziali di domanda di idrogeno capaci di innescare la collaborazione fra istituzioni e società energetiche per la realizzazione delle prime stazioni di rifornimento.
Costo delle stazioni di rifornimento di idrogeno
Che, a loro volta, hanno un costo medio unitario di circa 1 milione di euro e quindi – di nuovo – si tratta di investimenti inferiori a quelli dello scenario immaginato per i settori dell’industria e del riscaldamento
Checchè ne dica Elon Musk
Ecco perché l’elettrificazione dei mezzi pesanti attraverso le fuel cell sembra essere la chiave per la conversione all’idrogeno, al di là di ciò che Elon Musk sostiene con il suo progetto di motrice per autoarticolati a batteria, il Tesla Semi.
L’idea inglese
La convinzione dell’alleanza industria-governo in Gran Bretagna è che elettrificare questo tipo di veicoli non abbia senso. Il punto di partenza del discorso è la superiore densità di energia che l’idrogeno garantisce rispetto alle batterie.
Allo stato attuale delle cose, infatti, il pacco di accumulatori necessario a far muovere un classico “camion” peserebbe 8.000 kg – 9.000 kg, che andrebbero aggiunti ai circa 18.000 kg di peso medio di un autoarticolato in condizioni di lavoro.
Anche se, nella categoria di mezzi a cui appartiene il Tesla Semi si può arrivare anche fino a 36.000 kg, tenendo conto sia della massa del veicolo che del carico trasportabile. E siccome un camion senza motore pesa circa 7.000 kg, per differenza rimarrebbero 29.000 kg residui da spartire fra il peso delle batterie di un veicolo elettrico e quello della merce da trasportare. Ed ecco come si arriva a fare queste stime.
Facciamo un po’ di conti
Si tenga presente che un camion a gasolio attuale è in grado di spostare 20.000 kg garantendo percorrenze tra un rifornimento e l’altro anche di 1.500 km, mentre le promesse di autonomia del Tesla Semi durante la presentazione sono state al massimo di 800 km.
Elon Musk non ha dichiarato il peso del camion a vuoto, da cui si dedurrebbe il peso del carico, e il probabile motivo della mancanza di questa informazione è attendere che nei prossimi 2-3 anni la densità di energia delle batterie (cioè quanto può dare un carburante o un batteria in relazione al suo peso) migliori.
Densità energetica
Consideriamo ottimisticamente che le batterie al litio abbiano una densità di energia di 250 Wh / kg, contro i 13.000 Wh / kg della benzina e i 40.000 Wh / kg dell’idrogeno.
Per cui, per stimare quanto dovrebbero pesare le batterie di un Tesla Semi per essere competitivo, si può fare riferimento all’energia richiesta per spostarlo, basata sulla formula Energia = Potenza x Tempo.
Ed essendo Potenza = Forza x Velocità e Tempo = Distanza, espressa in autonomia / velocità media del camion, si può arrivare all’equazione secondo cui
Energia = [ (Resistenza aerodinamica + Resistenza al rotolamento + Forza di gravità) / (rendimento “dalla batteria alle ruote”) + (Inerzia) ] x ( Distanza / Velocità ).
Fonte: S Sripad, V Viswanathan – ACS Energy Letters, 2017 – ACS Publications – Formula per calcolo capacità e costo batterie di un veicolo elettrico – https://battery.real.engineering/
Più in dettaglio, le resistenze al moto sono quella aerodinamica, quella dovuta agli attriti di rotolamento e la forza peso contraria al moto quando si affrontano strade in salita che, se le stime dell’autonomia fossero fatte in pianura, sarebbe una componente nulla.
Nel calcolo della forza richiesta a superare l’inerzia del veicolo, invece, intervengono i rendimenti dei motori elettrici, dei freni e l’energia recuperata nella frenata rigenerativa.
Il camion Tesla Semi
Tenendo conto che il coefficiente di penetrazione aerodinamica del Tesla Semi è di 0,36 e assumendo una velocità media di 70 km/h e dei valori realistici per altri parametri (come la sezione frontale, il coefficiente di attrito volvente o l’efficienza nella rigenerazione di energia in frenata) si può stimare che un mezzo come il Tesla Semi possa aver bisogno di un pacco batterie da 900 – 1.000 kWh per coprire 800 km di autonomia.
Apparentemente pesante e costoso
Tradotto: con le attuali densità di energia, ci vorrebbero circa 8.000 kg di batterie per un costo di oltre 160.000 euro. E un camion a gasolio tradizionale costa meno di questa cifra considerando tutto il veicolo, non solo le batterie di un omologo elettrico che, in più, avrebbe meno autonomia e meno capacità di carico di un mezzo pesante.
Inoltre, se nell’equazione si tiene conto di pendenze medie diverse da 0 ecco che la capacità della batteria richiesta – e dunque il peso – aumenta.
Esempio: tenendo conto di una pendenza del 5% il Tesla Semi nella versione da 800 km necessiterebbe di altri 200 kWh di capacità richiesta oltre al pacco batterie da 900 – 1.000 kWh e per ulteriori 2.000 kg peso, mentre il costo salirebbe di altri 40.000 euro.
Costi
Insomma, siccome peso e costo delle batterie sono i 2 parametri principali che le aziende di trasporto considererebbero al momento dell’acquisto di un camion elettrico, i tempi per arrivare al punto di pareggio dell’investimento si allungherebbero, pur tenendo in considerazione che il costo chilometrico del camion elettrico sarebbe del 20% inferiore.
C’è però anche da considerare che un camion elettrico userebbe il 25% di energia in meno di un camion a gasolio, tenendo conto dell’efficienza dei suoi motori elettrici, oltre che il fatto che gran parte di questa energia si potrebbe ottenere da fonti rinnovabili.
Emissioni di CO2
Al di là del ragionamento economico di cui sopra, ci sono dunque i presupposti per cui un mezzo del genere riduca effettivamente le emissioni di gas serra. In aggiunta, c’è da valutare la questione del rifornimento.
Il gioco dei kW
Per un veicolo elettrico, una colonnina fast charge ad oggi è in grado di erogare valori tipici di 150 kW, salendo a 350 kW nei casi migliori. I sostenitori dell’idrogeno parlano invece di 3.000 kW, riferendosi nel caso specifico alla potenza contenuta in un pieno di gas per un mezzo pesante, realizzabile in un tempo inferiore anche ai 5 minuti.
Analisi di efficienza
E infine c’è l’argomento efficienza, che a grandi linee per l’idrogeno è di circa il 60%, in riferimento a tutto il ciclo di utilizzo di questo gas e quindi ai rendimenti – e dunque alle perdite – nei vari processi di elettrolisi, immagazzinamento e distribuzione, fino alla riconversione nelle celle a combustibile per far muovere i veicoli.
Sempre riportando le analisi di chi sostiene la validità dell’idrogeno, per paragone questo rendimento sarebbe sì inferiore a quello di un veicolo elettrico alimentato a batterie, ma la tempo stesso superiore a quello di un buon motore a combustione interna di un veicolo leggero (intorno al 30%) e a quello di un tradizionale mezzo pesante a gasolio (circa il 50%).
Anche se, va detto, questi ultimi valori si riferiscono alla “bontà” del singolo motore e non all’efficienza di tutta la catena di produzione e utilizzo dell’energia, come nel caso dell’idrogeno.
Il caso del Regno Unito
In ogni caso, sempre prendendo come caso studio il Regno Unito, si stima che nel 2030 circoleranno 1,5 milioni di veicoli Fuel Cell e che nel 2040 il governo impedirà la commercializzazione di nuovi mezzi con motore a combustione interna. Pertanto, l’idrogeno è un argomento strategico anche a livello politico: la Gran Bretagna – così come il Giappone, ad esempio – ritiene infatti che sposando l’idea di un’elettrificazione della società basata solo sulle batterie non sia possibile mantenere l’indipendenza. Al contrario dell’idrogeno, che essendo producibile internamente non costringerebbe alcune nazioni a dipendere da altre su un tema così delicato come l’approvvigionamento energetico.
La soluzione
La soluzione non esiste. Almeno, non se intesa come unica.
Già, la via da percorrere nel passare da una società basata sui combustibili fossili al prossimo modello di sviluppo dovrà reggersi non più su un’unica fonte energetica, per quanto molti possano pensare che a risolvere tutto sarà l’elettrificazione, ma senza specificare di che tipo.
Quella dei trasporti, in particolare, non potrà essere solo alimentata dalle batterie: nel processo di decarbonizzazione del pianeta, infatti, c’è da tenere a mente anche il ruolo dell’idrogeno.
Quando si dice “24mila” viene subito in mente Adriano Celentano e la sua celebre canzone, ma in realtà non si parla di baci bensì dei brevetti relativi all’elettrificazione delle automobili che Toyota è pronta condividere a titolo gratuito per promuovere la mobilità sostenibile.
Sono 23.740 per l’esattezza, e non sono certo fondi di magazzino visto che alcuni di essi sono ancora in attesa di registrazione e sono il frutto di quasi 30 anni di ricerca: il più grande bagaglio di conoscenza riguardo l’elettrificazione dei veicoli, da parte di un costruttore che ha messo su strada 13 milioni di auto ibride. Toyota è pronta a condividerlo gratuitamente da qui al 2030 offrendo a pagamento invece il supporto tecnico e di consulenza che riguarda l’applicazione di queste tecnologie.
Toyota non è nuova a queste operazioni. Già nel 2015 si era detta pronta a condividere 5.680 brevetti riguardanti la trazione a idrogeno, sia per le celle a combustibile sia per i sistemi di rifornimento. Nel frattempo la casa di Nagoya ne ha depositati su questo stesso argomento altri 2.380 che saranno evidentemente impiegati sulle auto ad idrogeno di prossima generazione, prima fra tutte l’erede della ToyotaMirai che sarà presentata in occasione del prossimo Salone di Tokyo alla vigilia delle XXIV Olimpiadi che si terranno nel 2020 presso la capitale giapponese.
Una logica open source che nel campo dell’automotive è stata portata da Tesla. Fu infatti Elon Musk nel giugno del 2014 il primo a dire Tutti i nostri brevetti appartengono a voi.
E Toyota che, più volte si era già beccata con il tycoon di Palo Alto, rispose il gennaio successivo con una mossa analoga annunciando al Salone di Detroit del 2015 di voler condividere tutte le proprie tecnologie registrate sull’idrogeno nell’interesse della mobilità del futuro e della conservazione dell’ambiente.
La controrisposta di Musk fu definire bullshit l’idrogeno. In inglese, il significato lato di questa parola, edulcorandolo, è “fesserie”, mentre quello letterale è “cacca di toro”.
Toyota prese alla lettera la provocazione dimostrando che dagli escrementi dei bovini si poteva ricavare proprio idrogeno per le proprie Mirai. Anche stavolta la mossa di Toyota arriva dopo che, all’inizio dello scorso febbraio, Elon Musk ha riaffermato la disponibilità dei brevetti di Tesla, anzi ha esortato chiunque a copiare Tesla per promuovere la diffusione dell’auto elettrica. Volendo immaginare una sorta di partita a tennis industriale sull’auto del futuro, si può pensare che la casa giapponese abbia voluto mandare un’altra cartolina al suo ex amico – Toyota è stata azionista di Tesla dal 2010 al 2016 vedendo moltiplicare per 6 i propri investimenti – stavolta rincarando la dose e avvicinando il tiro, come per dire: attento Elon, che qualcosa sull’auto elettrica sappiamo anche noi… (24mila) baci da Nagoya!
Design. È questa la password che deve decodificare soprattutto le auto elettriche.
Perché, da una parte ci aspettiamo linee rivoluzionarie e di frontiera e poi veniamo delusi da forme imbarazzanti oppure da linee terribilmente banali. La prima Nissan Leaf era inguardabile con quel posteriore che sembrava tamponato da un tir ma almeno era originale e diversa. Si distingueva ed era innovativa. Quella di oggi banale, normale, a tratti triste e il suo livello di effetto wow è pari a zero.
La macchina elettrica al pari di quella termica deve attrarre gli sguardi. Elon Musk lo ha capito quasi dieci anni fa con la Model S , bella vettura che ora esibisce uno stile datato e certamente non più emozionante.
Deludenti anche le super celebrate Mercedes EQC e Audi e-tron. Tecnologicamente ineccepibili ma dal design troppo rassicurante. Non danno idea della rivoluzione hi-tech che le anima.
La Jaguar I-Pace è già sulla strada giusta, mentre è Porsche Taycan a scatenare emozioni. La sportiva a ioni di litio della casa di Zuffenhausen solo a guardarla, e questo succede fin dai tempi della sua apparizione come concept Mission E nel 2015, sembra davvero dire: “Tesla, ti aspetto fuori”.
E i numeri sembrano dare ragione a Porsche. Infatti la vettura ancora non è in vendita (arriva nei prossimi mesi) ma gli ordini sono superiori alla produzione prevista per il primo dell’anno.
Chi ha detto, dunque,, che la macchina elettrica non deve emozionare ed essere bella? L’auto deve sempre e comunque scatenare sensazioni, non è un taxi.
Se la macchina alla spina diventa per tutti allora deve piacere perché non fa differenza se sotto al cofano ci sono pistoni o avvolgimenti di uno statore.
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